Codice Rosso, innovazione e criticità

Altrimenti conosciuta come “Codice Rosso”, è entrata in vigore lo scorso 9 agosto la legge 69/19, che, in materia di contrasto alla violenza nei confronti delle donne, ha apportato numerose modifiche al codice penale, al codice di rito e ad altre disposizioni.

La gergale attribuzione del più alto codice di priorità impiegato nei protocolli sanitari, se da un lato ne esplicita e richiama la (condivisibile) ratio quella di evitare che eventuali ritardi nella fase delle indagini e, in quelle precedenti, della acquisizione e dell’iscrizione della notizia di reato, possano pregiudicare la tempestività di interventi di tutela -, dall’altra rivela l’approccio ancora una volta emergenziale del legislatore italiano nella trattazione della violenza sulle donne e domestica, che tradisce l’esigenza di adottare, al contrario, misure in linea con il riconoscimento della natura strutturale e culturale della violenza di genere, e che mirino ad evitare la “vittimizzazione secondaria”, ossia il pregiudizio indiretto del reato, eventuale conseguenza dell’impatto della vittima con l’apparato giudiziario-processuale (come infatti prescritto dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa del maggio 2011, che l’Italia ha ratificato).

Il riferimento va, in particolare, alle modifiche che la legge dedica alla procedura, in quanto lo strumento scelto dal legislatore per riconoscere prioritaria tutela alla vittime dei reati di violenza domestica e di genere (maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, pure nella forma aggravata, atti sessuali con minorenne, corruzione di minorenne, violenza sessuale di gruppo, atti persecutori, lesione personale, nonché le nuove figure di reato introdotte da questa legge, diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti – il cd. Revenge Porn,, e deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso) è quello di trattare questi delitti alla stregua di quelli di grave allarme sociale, solitamente collegati alla criminalità organizzata e al terrorismo, per i quali è prevista l’immediata comunicazione al pubblico ministero da parte della polizia giudiziaria della notizia di reato – anche in forma orale –. Il che contrasta con lo scopo della legge stessa di riconoscere tutela alla vittima, semmai raggiungibile con la trasmissione di una comunicazione completa, ossia non carente di quegli elementi utili alla valutazione da parte dell’organo inquirente delle situazioni di rischio.

Viene poi introdotto un termine brevissimo – 3 giorni dalla iscrizione della notizia di reato – entro il quale il pubblico ministero deve assumere informazioni dalla persona offesa, o da chiunque abbia presentato querela, denuncia o istanza, con l’evidente rischio di esporre la donna alla “vittimizzazione secondaria”, ossia alla sofferenza che le potrebbe derivare dal dovere ripercorrere e nuovamente descrivere all’autorità giudiziaria le violenze agite nei suoi confronti, senza la giusta elaborazione. Il rischio è che la vittima neghi o minimizzi poiché non ha ancora la giusta consapevolezza delle vessazioni subite – pensiamo al caso in cui la denuncia provenga da terzi – o perché non si sente sufficientemente al sicuro – nella ipotesi, assai comune, in cui non si sia ancora allontanata dall’abitazione scenario delle violenze.

L’aumento delle denunce, quale immediata e positiva conseguenza dell’entrata in vigore della legge – dato che conferma che l’elemento determinate affinché la donna denunci è quello di ottenere tempestivamente una riposta di tutela -, ha comportato un vero e proprio “intasamento” delle Procure, tenute infatti a fronteggiare quella che di fatto può considerarsi una “presunzione legale” di urgenza, senza però il coincidente opportuno potenziamento di risorse e personale.

I magistrati di AreaDG esprimono perplessità, sottolineando “il rischio concreto che la nuova disciplina finisca per tradursi in un pericoloso depotenziamento degli strumenti di protezione della vittima della violenza di genere e della prevenzione di tali reati. Risultando al contrario più utili azioni strutturali, “multilivello”, come la formazione degli operatori, in specie, della polizia giudiziaria, in modo che possa subito addivenire con il PM alla “valutazione del rischio” cui sia esposta la vittima; la riforma del “sistema trattamentale” degli autori dei reati di violenza mediante l’attivazione di percorsi terapeutici e riabilitativi, “una capillare azione di contrasto alla diffusa incultura dell’odio di genere.

Il Sostituto Procuratore della Repubblica Dott. Marco Imperato – assegnato al gruppo di lavoro Fasce Deboli della Procura di Bologna – conferma: “Questa urgenza per un numero innumerevole di casi tra loro diversissimi è incongrua e illogica perché costringe a trattare nel medesimo modo e con analoga urgenza situazioni che dovrebbero consentire scelte e valutazioni differenziate. Questo modo di legiferare non risponde a logiche di funzionalità ma solo a strategie di propaganda. Nella mia esperienza investigativa sono spesso le indagini di contesto a consentire di chiarire il quadro, dare solidità al racconto anche soltanto mediante conferme indirette, delineare il profilo di pericolosità dell’indagato in base ai precedenti e a tutta una serie di altri elementi sintomatici.”

L’introduzione di ben quattro nuove figure di reato – violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa; delitto di costrizione o induzione al matrimonio; diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate; deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso; – sembra al contrario soddisfare la ratio della legge, sebbene non del tutto al riparo da criticità.

Assolutamente condivisibile la previsione che condiziona la concessione della sospensione condizionale della pena, per i delitti di violenza domestica e di genere, alla partecipazione a specifici programmi di recupero.

Aumenti di pena per i reati di maltrattamenti, atti persecutori (cd. Stalking), violenza sessuale, violenza sessuale di gruppo. In relazione alla violenza sessuale viene esteso a 12 mesi il termine per sporgere querela. Nell’omicidio viene considerata circostanza aggravante la relazione personale tra il responsabile e la vittima.

Degno di nota il riconoscimento introdotto dal Codice Rosso alla “violenza assistita” – la “condotta di chi costringa il minore, suo malgrado, a presenziare, quale mero testimone, alle manifestazioni di violenza, fisica o morale”-. Confermando una prassi già in uso presso la maggior parte delle Procure – tra cui quella di Bologna – la normativa estende al minore di anni 18 la qualifica di persona offesa dal reato di maltrattamenti.

Pertanto, nonostante le difficoltà applicative e il fondato dubbio che lo scopo di tutela possa, in alcuni casi, risultare depotenziato proprio per la indifferenziata valutazione del rischio che la normativa introduce – divergenze che parrebbero avere trovato convincente superamento nei protocolli adottati dalle singole Procure – e la mancata strutturale trattazione del fenomeno -, il Codice Rosso rappresenta se non proprio una svolta, sicuramente un passo avanti nella percezione della necessità di connotare diversamente la trattazione giudiziaria della violenza sulle donne ed endo-familiare. Agendo invero sui tempi dell’azione penale e delle indagini, e potenziando gli strumenti legislativi di riferimento utili all’effettivo riconoscimento in favore della donna di una tutela si immediata, ma altresì in linea con il percorso di affrancamento dai contesti relazionali di violenza.

 

Clarice Carassi,

avvocata Centro Antiviolenza PerLeDonne

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